Chi fu Giacomo Bove?
Il sentiero Bove è dedicato a Giacomo Bove, esploratore italiano nato a Maranzana il 23 Aprile 1852 e morto suicida a Verona a soli 35 anni dopo aver contratto una grave malattia durante la sua ultima spedizione in Congo.
Primo a trovare il “passaggio a Nordest” e primo esploratore dei territori allora sconosciuti di Patagonia e Terra del Fuoco, oggi risulta incredibilmente semidimenticato, nonostante proprio in Patagonia portino il suo nome un ghiacciaio, una vetta e un fiume.
A Bove fu anche dedicata la prima base italiana in Antartide, figlia della spedizione capitanata da Renato Cepparo, la quale purtroppo ebbe un epilogo molto “italiano”: il regime argentino dell’epoca (ex proprietario di quei territorio) fu terribilmente indispettito dal fatto che una spedizione di una nazione che non aveva – ancora – aderito al trattato Antartico si trovasse lì per stabilirvi una base fissa, e non si fece scrupoli a diffidare e intimidire con ogni mezzo possibile l’allora Governo italiano ed arrivando a prendersela persino con quello norvegese, nazione rea di aver permesso che un loro armatore mettesse a disposizione degli italiani la nave Rig Mate. Infatti, Cepparo dovette rivolgersi ad armatori esteri dopo che proprio il regime argentino fece arrestare, sempre con l’intento di tagliare le gambe alla spedizione, l’armatore italiano con il quale si era già trovato un accordo per il finanziamento della spedizione.
Il tragicomico epilogo si ebbe quando Cepparo tornò in Italia e decise di donare la base Giacomo Bove al Governo italiano, il quale nell’imbarazzo generale decise di donarla all’Argentina nel maldestro tentativo di ricucirvi i rapporti. L’unico risultato tangibile fu che il regime di Isabelita, probabilmente per ripicca, decise di smontare la base Bove e trasferirla altrove.
Il sentiero Bove
Questo piccolo preambolo solo per introdurre il personaggio a cui è dedicata la più antica alta via delle Alpi: il sentiero Bove, attrezzato per la prima volta nel lontano 1891.
Si tratta di un incredibile itinerario quasi esclusivamente su cresta, grandioso per l’epoca in cui fu ideato. Basti pensare che per superare i passaggi più ostici si prevedeva l’utilizzo di catene e tecniche da via ferrata quando ancora questo termine e questo tipo di vie nemmeno esistevano, le prime vie ferrate vere e proprie vennero infatti attrezzate nel XX secolo in Dolomiti.
Primo giorno: Cicogna – Alpe Lidesh
Consultando le quattro tappe previste in origine, abbiamo considerato fattibile unire le prime due (indicate come “E, 4h” ed “EE, 6/7h”) in una giornata unica, in modo da ridurre a soli tre giorni il tempo necessario e quindi anche il carico dello zaino.
Zaino in spalle e alle 7 di martedì lasciamo l’Ostello di Cicogna in direzione dapprima di Ponte della Buia (463m) in ripida discesa e da qui con circa 2h di risalita raggiungiamo Alpe Curgei (1350m) dove si può trovare un bivacco e una fontanella. Dall’Alpe Curgei si arriva in poco tempo il Colle della Forcola (1518m), attraverso un comodo sentiero sino alla cappelletta di Pian Cavallone e da qui proseguiamo lungo la traccia, a volte esposta e attrezzata con catene, che evita la salita in vetta a I Balmitt.
Dal C.le della Forcola si inizia la ripida salita, parzialmente attrezzata, verso il Pizzo Marona, passante per il Passo del Diavolo (1883m) e la Scala Santa, famoso tratto di via molto scenografico e attrezzato con catene laterali nei punti più esposti e alti gradini. Raggiungiamo la vetta del Pizzo Marona (2051m) dopo 5h45′ di cammino da Cicogna, e finalmente è l’ora del meritato pranzo!
Dal Pizzo Marona raggiungiamo rapidamente, su facile sentiero, la vetta del monte Zeda. Questa vetta, quotata 2156m, è la più alta toccata dal sentiero Bove e da qui il panorama spazia dai 4000 del Rosa e della Svizzera ai laghi Maggiore e d’Orta.
Ciò che però attira di più la nostra attenzione è il vedere per la prima volta l’itinerario che ci aspetta nella sua interezza. La prima domanda che ci poniamo è come sia possibile percorrere creste e pendii di quel tipo rimanendo sul grado E-escursionistico. Domanda che si rivelerà particolarmente centrata nel punto, soprattutto per i due giorni successivi (classificati, appunto, “E”).
Secondo le guide e le relazioni da noi lette la discesa dal versante Nord dello Zeda è il tratto della seconda tappa che richiede maggiore attenzione, ma io mi sento di “allungare” questa definizione all’intero percorso dalla vetta Zeda al passo delle Crocette (1781m), da dove poi si prende la deviazione per il bivacco Alpe Lidesh. Infatti, se è vero che le catene immediatamente sottostanti alla vetta sono impegnative, spesso esposte e di discreto sviluppo, richiedendo un’elevata soglia di attenzione per lungo tempo, è altrettanto vero che i successivi 3km di cresta, passanti per La Piota (1925m) sono caratterizzati da passaggi di cresta molto esposti e sentieri quasi per nulla o comunque mal segnalati, con erba alta e pendi erbosi decisamente ripidi e scivolosi.
Dopo circa tredici ore di cammino, intorno alle 20, arriviamo all’Alpe Lidesh dove, contrariamente a quanto segnalato sulle relazioni reperibili in rete, la fontanella è esaurita e noi che avevamo fatto affidamento su quella fonte d’acqua siamo letteralmente a secco, ci rimane un litro a testa per il giorno dopo e scegliamo di non cenare per non sprecarne nella cottura della pasta. Questo è solo uno degli aspetti folli dell’organizzazione e promozione di questi luoghi e nello specifico di questo itinerario, aspetti che approfondiremo a fine articolo.
Al bivacco facciamo la conoscenza di un’altra coppia di ragazzi i quali condividono con noi la stessa (disidratata) sorte, e mentre noi ci sistemiamo si avventurano alla ricerca di un rigagnolo d’acqua lungo i pendii del monte Lidesh, purtroppo senza fortuna.
Secondo giorno: Alpe Lidesh – Alpe Scaredi
Naturalmente nella situazione in cui ci siamo trovati il trekking in se è passato in secondo piano e la nostra prima preoccupazione è stata reperire dell’acqua, ma il posto da noi individuato ed in cui eravamo quasi certi di trovarla si trovava comunque verso la fine della seconda tappa del Bove e ci avrebbe richiesto almeno 5 ore di cammino prima di raggiungerlo.
Un minimo rinfrancati dal fatto che questa tappa avrebbe dovuto essere solamente escursionistica, ma non troppo per la maturata e ormai ben giustificata diffidenza nelle guide e relazioni del posto, ci mettiamo in cammino alle 7 e dopo circa un’oretta siamo al Passo delle Crocette, da dove riprendiamo l’itinerario verso la vetta del monte Torrione (1984m).
Nel mio piccolo vorrei fugare ogni dubbio o incomprensione: la salita al monte Torrione non è nulla di nemmeno lontanamente accostabile ad una difficoltà “E”.
La maggior parte del percorso risale un ripido canalone attrezzato con catene che richiede qualche minima base di arrampicata e piede molto fermo nei passaggi più esposti. Dopo il canalone si affrontano alcuni scivolosi traversi su prati simili a giungle e nuovamente un canalino più breve ma ugualmente pericoloso, anch’esso attrezzato con catene. Anche su questa classificazione torneremo a fine articolo.
Giungere in vetta al monte Torrione senza bere o quasi è stata una prova discretamente ardua, ma il tratto da lì a Cima Marsicce (2134m) è stato qualcosa di simile ad una prova di sopravvivenza. Il percorso ricalca le caratteristiche e le difficoltà dell’ultimo parte di itinerario del primo giorno, aggiungendoci numerose risalite e quindi centinaia di metri di dislivello. L’aggiramento dei Torri di Terza ci sembra non finire mai e nel momento in cui riusciamo a terminarlo scopriamo con orrore che tutto il dislivello fin lì guadagnato lo andremo rapidamente a perdere in seguito ad una ripida discesa nel versante del vallone di Finero. Questa discesa in realtà si rivelerà salvifica, dal momento che finiremo in mezzo a cespugli di mirtilli freddi e umidi dalla notte non essendo ancora stati raggiunti dai raggi del sole e che per noi risultano il migliore apporto di liquidi e zuccheri possibile in quel momento. Ripartiamo con l’umore leggermente migliorato e guadagniamo la vetta di cima Marsicce, da cui scendiamo per le solite strette ed esposte tracce su prato sino ad una bocchetta da cui svalichiamo ed iniziamo una facile discesa verso l’Alpe Scaredi (1841m).
All’Alpe troviamo fortunatamente la fontana attiva e dedichiamo l’intero pomeriggio alla reidratazione e al recupero delle energie, soprattutto mentali, spese fin lì. Decidiamo anche di restare a dormire lì, anziché a Bocchetta di Campo come vorrebbe il programma, proprio per non fare assolutamente altro durante tutto il restante pomeriggio che non fosse rilassarsi e godersi le comodità e la bellezza di quel luogo che ci appare come un hotel di lusso.
All’Alpe Scaredi possiamo godere della compagnia di un gruppetto di asini attratti dal nostro pane, di un bagno (incredibile, un vero e proprio bagno) e nel tardo pomeriggio ci raggiunge un’allegra famigliola con quattro bambini piccoli i quali trasformano l’oasi di pace in un campo di battaglia, riempiendo l’aria di rumore e allegria.
Rifocillati e reidratati, ma ugualmente esausti, alle 21 ci corichiamo sul tavolato del bivacco: la giornata successiva prevede la risalita sino a Bocchetta di Campo (1994m) e l’inizio della discesa verso valle da quello che è unanimemente riconosciuto come il posto più pericoloso del Bove: le Strette del Casé.
Terzo giorno: Alpe Scaredi – Cicogna
Partiti alle 6 da Alpe Scaredi, il percorso sino a Bocchetta di Campo è stato uno di quelli che ci siamo goduti di più: le prime luci dell’alba illuminavano uno scenario grandioso, che siamo riusciti ad assaporare a tutto tondo durante la traversata della cresta che collega Cima della Laurasca a Cima di Campo. Più che le parole, parlano le immagini:
In meno di due ore superiamo Bocchetta di Campo e raggiungiamo l’inizio delle Strette del Casé. Si tratta di alcune gole naturali da discendere e risalire svariate volte per un dislivello positivo totale di circa 100m, caratterizzate da un terreno molto ripido, instabile e spesso in forte esposizione.
L’attenzione richiesta qui è massima e ogni passo va misurato e pesato, come ci hanno detto due escursionisti pratici del posto la sera prima: “alle Strette è meglio non scivolare“.
La traversata di queste gole ci richiede circa tre ore, e pensare che lo sviluppo effettivo è di un solo chilometro…
A questo punto sarebbe un errore enorme pensare di aver finito le difficoltà, ci si affaccia infatti sulla successiva discesa (i prati di Ghina) a quota 1810m e Pogallo, il paesino in cui finiscono effettivamente i sentieri impervi e insidiosi, si trova a circa 870m. La discesa dei prati immediatamente seguenti la fine delle Strette è il posto al mondo in cui è probabilmente più facile smarrire la via. Indicazioni pressoché assenti, erba alta quanto un adulto e una pendenza che non lascia troppo spazio a scivolate. Grazie al GPS riusciamo a perderci solamente una volta, se non l’avessimo avuto probabilmente staremmo ancora vagando in quei prati alla ricerca di margherite e ipotetiche tracce di sentiero.
Terminati i prati si affronta un lungo traverso verso destra che alterna sentieri comodi e rilassanti a, ancora ed incredibilmente, intermezzi stretti ed esposti su erba o placche di roccia levigata in corrispondenza di impluvi e rii.
Una volta che il malcapitato escursionista sarà uscito anche da questo infinito traverso potrà finalmente tirare il fiato e affrontare gli ultimi 500m di discesa verso Pogallo godendo dell’ombra e della bellezza della faggeta. Non che qui manchino i sentieri scivolosi e ripidi, ma confrontati con i loro “predecessori” di giornata ci sembrano il terreno più facile del mondo.
In nemmeno un’ora raggiungiamo il piccolo centro abitato da cui diparte il “sentiero natura” che ci riporterà a Cicogna costeggiando le piscine naturali del Rio Pogallo e accompagnandoci con cartelli illustrativi sulla geologia e sul patrimonio naturale del Parco.
L’arrivo in paese è un po’ come la fine di tutti i viaggi, ci sentiamo sicuramente sollevati e rilassati, ma nel profondo già rimpiangiamo questi giorni che ci hanno permesso di vivere il selvaggio e scoprire nuove parti di noi e del nostro rapporto.
Il sentiero Bove in numeri
Lascio un riassunto delle nostre tappe per chi, ispirato e trascinato da questo e altri racconti, volesse cimentarsi in questa avventura d’altri tempi. Mi sono preso la libertà di inserire le difficoltà che ritengo più realistiche per le varie tappe.
Tappa | Durata | Dislivello positivo | Sviluppo | Difficoltà |
Cicogna – Alpe Lidesh | 12h | 2150m | 17km | EEA |
Alpe Lidesh – Alpe Scaredi | 7h | 962m | 6,86km | EEA |
Alpe Scaredi – Cicogna | 9h | 831m | 11,76km | EE |
Traccia GPS Cicogna – Alpe Lidesh
Traccia GPS Alpe Lidesh – Alpe Scaredi
Traccia GPS Alpe Scaredi – Cicogna
Conclusione
Per non fraintendere il senso dello scritto successivo, si deve partire da una premessa doverosa: l’esperienza vissuta lungo il Sentiero Bove ci ha entusiasmati e ci porteremo questo enorme bagaglio e il ricordo di questi incredibili giorni ovunque andremo e per molto tempo. E, cosa non da meno, ne saremo tremendamente orgogliosi. Perché, nel bene e nel male, abbiamo spostato alcuni nostri limiti, fisici e non, un po’ più in là. Oltre ciò che credevamo possibile sino al giorno prima.
Fatta questa premessa, non è tutto oro ciò che luccica.
Noi purtroppo abbiamo riscontrato, e abbiamo avuto la conferma delle nostre sensazioni parlando con altri escursionisti sul percorso, che ad un enorme potenziale, sia paesaggistico che prettamente relativo alle capacità attrattive di una via di questo tipo, non corrisponda neanche in minima parte un’opera di manutenzione dell’itinerario da parte dell’Ente Parco e, cosa probabilmente ben più grave, le difficoltà delle varie tappe sono incredibilmente sottostimate proprio da chi, relatori e guide, invece dovrebbe mettere l’escursionista nelle migliori condizioni per valutare se il percorso sia o meno adatto alle proprie capacità e competenze, con il rischio di far avventurare qualcuno che ha creduto alla difficoltà “E” su sentieri ben più difficili e pericolosi di ciò.
Per un percorso del genere non può bastare scrivere “sentiero da non sottovalutare e adatto solo ad escursionisti molto esperti” per mettersi a posto la coscienza.
Non se poi l’escursionista si trova ad affrontare quella che a tutti gli effetti è una breve via ferrata per la salita al monte Torrione, mentre le cartine di riferimento classificano la difficoltà di quella tappa come E.
Se le Strette del Casé vengono narrate come un luogo molto pericoloso, con sentiero esposto ecc ecc, poi non possono essere inserite in una tappa di difficoltà E. Si gioca con il fuoco, e prima o poi qualcuno impreparato ci si brucerà, più o meno gravemente.
Merita un ultimo discorso a parte la non presenza dell’acqua al bivacco Alpe Lidesh: se leggo che lì c’è una fontana dove potersi rifornire d’acqua, se leggo che anche in caso di fontana inattiva i rii vicini sono bagnati anche nelle stagioni più secche, se chiamo il comune di riferimento e mi viene detto di stare tranquillo che l’acqua lì ci sarebbe stata, l’acqua lì ci deve essere. Se non c’è e l’escursionista ci ha fatto affidamento, com’è normale che sia viste le premesse, è un disastro. Noi fortunatamente ci siamo arrivati con ancora un litro a testa di sorta e questo non ha comunque impedito che patissimo la disidratazione il giorno dopo. Se qualcuno di meno accorto o fortunato ci arrivasse senza più una goccia d’acqua contando sul fatto che, come bellamente pubblicizzato, questa ci sia, i problemi sarebbero ben più gravi.
Un Ente Parco serio, che valorizza e promuove seriamente i suoi territori e sentieri, queste enormi mancanze non se le può permettere.
Capisco che il Parco Nazionale della Val Grande spinga molto sul suo status di “wilderness” estrema, ma se la si vuole rendere minimamente godibile va saputa curare e valorizzare, altrimenti abbandonatela a se stessa e sicuramente la natura non ne risentirà.