La madre è il primo dio di suo figlio; deve insegnargli la lezione più importante di tutte: come amare.
TF Hodge
Nell’era social spesso ci perdiamo nella ricerca di approvazione e attenzioni virtuali, dimenticandoci in quale enorme quantità ne potremmo ricevere senza nemmeno uscire dai confini di casa nostra. Ci dimentichiamo chi ci ha amato dal nostro primo battito di ciglia e lo farà sempre: mamma e papà.
E a volte finiamo per trascurarli.
Per la festa della Mamma speravo di regalarle un’esperienza unica nel suo genere. Invece anche questa volta il regalo più grande l’ho ricevuto io: ho visto nei suoi occhi la stessa fiducia che io ho in lei da tutta una vita.
Penso che per un figlio non possa esserci soddisfazione più grande che riuscire a restituire ai proprio genitori una minima parte di ciò che loro gli hanno donato negli anni.
Questo non è altro che il racconto di una festa della Mamma un po’ al di fuori dell’ordinario.
Vissuta in equilibrio sul filo più lungo delle Alpi Apuane: la cresta di Nattapiana al Pizzo d’Uccello.
Avvicinamento
Partiti alle 6 da Genova, arriviamo all’abitato di Vinca poco prima delle 8 e troviamo ad accoglierci un inebriante profumo del famoso pane locale distribuito nei vicoli del paese da chissà quale forno. Sembra tutto chiuso e non c’è nessuna anima viva in giro, tranne due ragazzi armati di corde e scarpette che si dirigono verso la Sud del Pizzo.
Usciti dal dedalo di viuzze e scalette del paese, imbocchiamo il sentiero 190 che si addentra in ripida salita nella vegetazione del versante destro della valle. Qui ciò che colpisce è proprio ciò che circonda il sentiero. Inizialmente si cammina in uno splendido bosco di castagni monumentali e contorti, il quale viene rapidamente sostituito da una magnifica pineta che ci accompagnerà per il resto dell’avvicinamento. Da qui il sentiero diventa più gradevole e facile, anche se nella parte alta ci presenta tratti con pendenze notevoli.
In poco più di un’ora copriamo i 550m di dislivello e arriviamo alla spalla, dove il panorama si apre in tutta la sua ampiezza verso nord. Qui, abituati all’ambiente boschivo, c’è bisogno di un minuto di adattamento alle sensazioni che generano i precipizi di quello che poco più avanti diventerà il filo della Nattapiana.
Memore della gita precedente su questa cresta, decido di risparmiare un po’ di tempo e rimandare imbraghi e manovre di corda alla vetta del monte Bardaiano, da cui iniziano le vere difficoltà alpinistiche.
La cresta di Nattapiana
Da questa sommità percorriamo in discesa il filo di cresta sino ad incontrare la prima delle tre calate attrezzate. In questo tratto l’esposizione è notevole, basti pensare che la Nord del Bardaiano è stata l’ultima grande parete delle Apuane ad essere salita, nel 1970.
Le calate
Al netto dei gradi contenuti e degli elevati pericoli oggettivi, la parte più tecnica di questa cresta sono le tre calate in corda doppia.
Si trovano tutte concentrate nel tratto iniziale della via e hanno lunghezze analoghe contenute (15m prima e terza, 6/7m la seconda).
La prima si trova subito sotto la vetta del Bardaiano ed è probabilmente la più esposta e rognosa, e infatti l’unica in grado di provocare un “brivido” di timore a mamma. Dopo alcuni metri appoggiati, si incontra un tetto e bisogna scendere l’ultima (breve) lunghezza praticamente seduti sull’imbrago. Qui l’esposizione lato Nord è massima.
Tra la prima e la seconda si incontra un breve risalto roccioso che offre facile arrampicata (II/III°, possibilità per friend/fettucce) mai esposta.
La seconda calata è sicuramente la più breve e tranquilla delle tre, e probabilmente l’unica aggirabile, seppur con una scomoda disarrampicata. Si tratta di una placca inclinata di 6/7m che finisce su un ampio terrazzo erboso.
Qui si aggira un enorme masso e si affronta un salto di pochi metri in cui troviamo l’arrampicata più difficile della via (III, forse un breve passo di IV). Sempre su terreno misto roccette/erba si giunge alla terza e ultima calata.
L’attenzione maggiore qui è richiesta alla fine, nel momento di liberare la corda. Infatti, se la discesa è agevole, l’intaglio su cui termina è stretto, esposto e instabile. Conviene proseguire poco oltre, sempre assicurati alla calata, fino a raggiungere l’altro lato e le tracce erbose.
Qui la parte strettamente alpinistica si può dire terminata.
Escursionismo difficile o alpinismo facile?
Dopo un paio d’ore di tribolazioni alpinistiche e litigi con le calate, mamma si rallegra alla notizia che ora ci aspetti almeno un’oretta con i piedi ben saldi su tracce erbose.
Beata ingenuità di chi non ha mai frequentato le Apuane, qui le tracce su paleo sono così infide e labili da far rimpiangere in pochi minuti la roccia dura e pura.
Dopo mezz’oretta di tranquillità, arriviamo alla base dell’anticima. Qui le opzioni sono due: infilarsi nel canalino, protetto ma soggetto a scariche, o risalire il versante verso la cresta per tracce e traversare a monte del canalino. La decisione ricade sulla seconda, ed è decisamente la peggiore.
Avevo già percorso il canale e non ricordavo difficoltà elevate, mentre su questo pendio ci troviamo a dover piazzare friend tra le rocce nascoste nell’erba, tanto ripido e pericoloso sarebbe uno scivolone.
Al termine del camino ci concediamo una breve pausa ristoratrice, prima della salita alla vetta vera e propria.
Finalmente vediamo la fine della cresta di Nattapiana.
Verso la vetta del Pizzo d’Uccello
A mio parere l’ultima parte è la più infida e pericolosa di tutta la cresta. Si tratta infatti di un traverso ascendente in direzione della spalla sud-ovest del Pizzo, mai difficile ma molto instabile ed esposto su ripide e lisce placche calcaree. Sono presenti 2/3 fix apparentemente nuovi e un cavo di ferro al quale probabilmente non sarebbe sicuro nemmeno appendere lo zaino.
Dopo aver percorso in relativa sicurezza questo traverso, ci aspettano le ultime placche da superare con facile arrampicata (I/II°) puntando dritti verso la vetta. Anche qui vale quello che ormai è diventato un motto delle escursioni su queste montagne: “tanto facile quanto pericoloso”.
Le suddette placche sono coperte di detriti e bisogna essere acrobati per non muovere nulla e non lapidare i compagni o le cordate sottostanti.
Le ultime decine di metri di cresta dopo le placche sono elementari roccette che senza alcuna fatica ci portano sulla sommità della montagna.
Dopo 4h40′, io e mamma abbiamo terminato la cresta di Nattapiana!
La vetta
Ogni volta che se ne tocca la vetta, si capisce come il Pizzo d’Uccello si sia guadagnato l’appellativo di Cervino delle Alpi Apuane. La vista spazia dal Golfo dei Poeti al lontano gruppo delle Panie, con la corona di vette della Val Serenaia che sembra quasi a portata di mano.
Questa montagna, nonostante sia soltanto la settima per altezza, è la più famosa e ambita delle Apuane. Dovunque la si guardi appare come una perfetta piramide di roccia e nessuna delle vie di salita concede all’escursionista un facile accesso. Basti pensare che la sola via normale da Foce di Giovo presenta circa 300m di dislivello da coprire arrampicando (I/II°) in diedri e camini su roccia rotta.
Discesa
Circa alle 16 lasciamo la comodità della piazzola di vetta e ci inoltriamo nei camini della normale. In un’oretta raggiungiamo Foce Giovo, dove una pausa è d’obbligo.
Questo luogo a mio parere è il balcone più bello delle Alpi Apuane, e offre uno scenario migliore di ognuna delle vette della zona.
Verso est si apre ancora lo spettacolo della Val Serenaia contornata dal Pisanino, gli Zucchi di Cardeto, i monti Cavallo e Contrario. A sud si ergono minacciosi i primi contrafforti della cresta del Garnerone. Il resto della scena appartiene alla valle di Vinca sulla quale domina a nord la sagoma del Pizzo d’Uccello e la cresta di Nattapiana, mentre a sud le imponenti pareti sottostanti il monte Sagro.
Ricaricate batterie fisiche e mentali, da Foce Giovo raggiungiamo Vinca in meno di un’ora, chiudendo cosi l’anello in poco più di dieci ore di movimento.
Considerazioni e pensieri
Penso che dal racconto trapeli abbastanza chiaramente la mia opinione sulla cresta di Nattapiana. Si tratta di una cavalcata indubbiamente ardita e meritevole di un pensiero. A patto di sapere a che genere di terreni si va incontro, e che qui l’avere una corda non è sempre sinonimo di sicurezza. I pericoli maggiori si corrono sui ripidi pendii, dove l’assicurazione è pressoché impossibile.
Poi ci sono le considerazioni sulla nostra esperienza, e sono di tutt’altro tenore.
Dal punto di vista pratico, siamo stati molto più agili e veloci di quanto avrei pensato, la cresta è filata via senza alcun intoppo così come il resto della giornata.
Come figlio invece, vedere la propria mamma a 66 anni (da compiere, specifico prima di venire fustigato e diseredato) guadagnarsi una vetta così ambita, per di più da una via impegnativa come questa, non può che rendermi orgoglioso. Mi ha mostrato, una volta di più, che con forza di volontà e fiducia nelle persone che ti stanno a fianco non ci siano limiti alle nostre possibilità. E non potrò che essergliene grato e portarmelo dentro il più a lungo possibile.
Penso a quanti non si sentano fisicamente pronti per le più banali attività fisiche e vorrei dirgli quanto il nostro corpo sia una macchina incredibile, e se nutrito con amore e rispetto può portarci a vivere esperienze che mai avremmo immaginato possibili.
C’è infine un ultimo pensiero personale, che va oltre la singola soddisfazione di aver accompagnato mamma lì. Le persone che non conoscono questo sport lo bollano molto frettolosamente come un correre rischi enormi inutilmente. E forse hanno ragione, in fondo.
Non c’è alcuna utilità pratica nell’arrampicata e tantomeno nell’alpinismo, la nostra vita non cambierà una volta raggiunta la vetta e tornati a valle.
L’ho sempre pensata anche io così, fino ad oggi.
Se è stato possibile vivere questa esperienza e restituire una parte di entusiasmo e meraviglia a mia madre, è stato proprio grazie ad anni di rischi “inutili” ed esperienze al limite da cui ho imparato lezioni, non necessariamente belle.
Se qualcuno vivrà tutto ciò e ancora penserà che non vale il sorriso della propria mamma allora sì, accetterò il fatto che questa sia una disciplina inutile. Da oggi per me ha tutto un nuovo senso, e scopo.
Quando i bisogni fondamentali della vita sono soddisfatti, abbiamo tempo ed energia per fare quello che ci piace, per mettere alla prova le nostre possibilità, le nostre idee, le nostre capacità. In cambio, guadagniamo autostima, voglia di vivere e felicità, ma soprattutto, il senso della nostra vita.
Non si può insegnare ad una persona ad essere contenta o addirittura felice. La gioia di vivere non si può comprare, anche se viene offerta ovunque.
L’esperienza dell’esistenza non ci viene donata, ogni cosa deve essere vissuta.
Reinhold Messner – Il senso dell’inutile
Grande Dado per le bellissime parole dedicate alla tua grande e in formissima mamma. Stupenda descrizione del percorso e fotoreportage. Ciao
Grazie Franca, apprezzo molto!