La montagna mi ha insegnato a non barare, a essere onesto con me stesso e con quello che facevo.
Walter Bonatti
Essere stati, ognuno a modo suo, sinceri in primis con noi stessi è proprio ciò che questa volta ci ha permesso di tornare a casa con una storia e un bagaglio enorme di esperienza. Pur senza vetta.
L’obbiettivo primario è e rimarrà sempre raggiungere il fondovalle, le vette sono un “bonus”.
Guai a confondere quest’ordine.
Dissesto del programma originale
L’idea era una partenza nella primissima mattinata di sabato da Genova, stop intermedio a Pont per divertirci e scaldarci un po’ sulla via ferrata delle Peredrette e poi rotta verso il cuore della Valpelline e il rifugio Nacamuli.
Sì, era.
Perché avremmo dovuto capire già da alcuni segni che il weekend stava nascendo sotto una brutta stella. L’equipaggio solamente il giorno prima aveva visto una defezione e si era ridotto a tre membri: il sottoscritto, Tommaso e Aurora. Ciò non ci ha scoraggiati e siamo partiti ugualmente carichi, così il meteo ha pensato di darci un altro buffetto facendoci rinunciare alla ferrata e dirigendoci direttamente verso la Valpelline, con il timore e presentimento di finire comunque inzuppati.
Proprio questo “sesto senso” ci dice di non perdere tempo in pranzi in prossimità del fondovalle ma di tirare a raggiungere il rifugio più velocemente possibile.
Per chi conosce la Valpelline non sarà certo una novità sentir parlare della passeggiata lungolago come un infinito e noiosissimo sterrato, e per inciso non sarò io ad andare controcorrente. Un’ora di polvere e noia.
Verso il rifugio Nacamuli
Poco prima del rifugio Prarayer si stacca il sentiero che in qualche ora (2/4 a seconda del passo) conduce al rifugio Nacamuli. Lo imbocchiamo con sollievo, salvo pentirci al decimo metro di dislivello positivo di aver snobbato lo sterrato pianeggiante.
Sulla parte più bassa del sentiero non c’è molto da dire, è ottimamente tracciata e attraversando alpeggi e baite abbandonate regala scorci magnifici sulla valle e sulle cime soprastanti (Becca d’Oren, l’ardita cresta della Sengla e la Gran Becca Blanchen). La pendenza è inizialmente blanda, salvo poi presentare qualche tratto un po’ più ripido su facili pietraie. È anche previsto un piccolo e stretto passaggio molto vicino al fiume che in caso di portata abbondante potrebbe inzuppare il malcapitato escursionista.
Le cose si fanno interessanti poco dopo, quando il sentiero prende ripidamente quota e ci troviamo ad affrontare roccette attrezzate con gradini metallici e canaponi fissi. Niente di che, sono più utili per mantenere l’equilibrio in discesa che realmente necessari alla percorribilità del sentiero.
Ovviamente nel nostro caso ha iniziato a piovigginare qualche minuto prima e ci godiamo questo simpatico insieme di corde e staffe in condizioni fango umide degne di imprecazioni.
Finito ciò si è praticamente arrivati, il rifugio lo si vede sopra al proprio naso e non mancano più di 15/20 minuti.
Infatti, in quel momento inizia a piovere sul serio, sia mai che ci godessimo le ultime fatiche da asciutti.
Arriviamo al rifugio (2818m) verso le 15 e ci dicono che siamo i primi, ma il rifugio alla sera è completamente prenotato. Il nostro pensiero va a quelle decine di persone che stanno giocoforza salendo nell’attuale diluvio. Pensiero carino, che dura poco perché non abbiamo ancora mangiato.
Il pomeriggio passa tra preparativi e partite a carte, la cena è di ottima qualità ed abbondante e alle 21 siamo a nanna.
Il piano recita colazione alle 3:30 e partenza alle 4:00.
Sveglia e avvicinamento
Come anticipatoci dal gestore, nessun avventore del rifugio non aveva alcuna intenzione di improvvisarsi animale notturno e così a quell’ora (e per quella vetta) ci ritroviamo a fare colazione solamente noi tre e un’altra cordata di due ragazzi, con i quali condivideremo parte della salita.
Gambe in spalla e lasciamo il Nacamuli sotto una debole pioggerellina, fiduciosi nelle previsioni meteo che davano un netto miglioramento già dalla notte.
Risaliamo per circa un’oretta su tracce che risalgono ripide pietraie e costeggiando il caratteristico lago glaciale raggiungiamo il Col Collon (3074m). Di solito ci si lega e si attacca il ghiacciaio di Arolla proprio qui, ma valutate le condizioni pessime della parte bassa decidiamo di percorrerne la costola di sfasciumi a destra (orografica) e mettervi piede circa 150m di dislivello più in alto.
Una delle decisioni più azzeccate mai prese nelle nostre brevi e umili carriere alpinistiche. Mentre ci trovavamo circa a metà pietraia, un boato ha scosso il silenzio delle prime luci dell’alba e dalla parete sud dell’Évêque si è riversata sul ghiacciaio una enorme frana. Onestamente non saprei dire se ci siamo letteralmente salvati o se ci avrebbe solo sfiorato, sicuramente ha impressionato e scosso tutti e tre.
Poco dopo le 6 muoviamo i primi passi sul ghiacciaio e le condizioni appaiono già molto problematiche, la neve senza aver preso mezzo raggio di sole ha già mollato.
O più probabilmente è proprio rimasta molla dal giorno prima, con un rigelo inesistente.
Col de l’Évêque e ghiacciaio du Mont Collon
Decidiamoci di metterci dietro alla cordata degli altri due ragazzi e proseguire finché ci sembra ragionevolmente sicuro farlo. Così arriviamo in breve al Col de l’Évêque (3382m) da dove iniziamo la discesa nella immensa conca del ghiacciaio du Mont Collon che ci permetterà (“pagando” più di 200m da recuperare al ritorno) di aggirare il versante roccioso della montagna e approcciarne la vetta dai pendii glaciali a nord.
Merita sicuramente una sosta la vista di cui si gode da qui: le montagne circostanti il colle sono bellissime, ma il massiccio delle Grand Combin ci si staglia di fronte e ruba la scena a qualsiasi altra cosa nei dintorni.
Fatto salvo qualche ponte veramente poco invitante e una gita innocua in un buco per Tommaso, arriviamo sul pianoro senza particolari patemi, ma qui ci accoglie uno scenario da brividi: sotto i nostri piedi sentiamo distintamente il rumore dell’acqua che scorre e il pendio che dobbiamo salire è spaccato e secchissimo.
Poco male, ci diciamo, levandosi in fretta dalla conca poi sul pendio riusciremo quantomeno a vedere chiaramente i crepacci da evitare.
Fortunatamente poco sopra la zona disastrata che potevamo vedere noi le condizioni si rivelano migliori e ci godiamo un’altra oretta di ripida ma facile salita lungo il versante nord, fino al colle situato poco più di un centinaio di metri sotto la vetta.
Qui la pendenza aumenta sensibilmente e affiora ghiaccio vivo. Vediamo anche una coppia di svizzeri che scendendo dalla vetta si sta cimentando in ardite doppie sul ghiaccio.
Ognuno di noi, curiosamente per tre motivi diversi tra loro, esprime la stessa scarsa convinzione nel continuare verso la vetta. Di solito basterebbero le perplessità di uno, figuriamoci quando l’animo della cordata è unanime!
Dietrofront, con tanti auguri e un grosso in bocca al lupo ai due ragazzi che decidono di proseguire la salita.
Il ritorno è difficile ed impegnativo almeno quanto l’andata.
Riusciamo ad uscire dal labirinto di ghiaccio secco ritrovando la strada grazie al GPS dei nostri orologi e il pianoro si presenta in condizioni ancora peggiori a due ore prima: ora l’acqua non si sente più solo scorrere sotto, scorre proprio sopra al ghiaccio!
Corriamo quasi letteralmente fuori da quella trappola e rimaniamo piacevolmente delusi dalla salita successiva, la quale ci aspettavamo molto problematica e che invece vola via senza quasi accorgercene. Dislivello a parte.
In teoria mancherebbe veramente poco all’uscita dal ghiacciaio, ma gli ultimi metri si rivelano di nuovo un’estenuante ricerca del ponte di neve “meno peggio”, lavoro che si sobbarca totalmente Tommaso.
Quando riusciamo a mettere nuovamente i piedi sulle tanto bistrattate pietraie ci sembra di essere sul terreno più bello del mondo!
In poco più di un’ora torniamo al rifugio non senza l’ultimo brivido; io e Aurora perdiamo di vista Tommaso il quale ricompare mezz’ora più tardi al rifugio, proprio quando eravamo rassegnati a chiamare i soccorsi.
Incredibilmente la discesa a valle si svolge sotto il sole, con panorami magnifici sulla vette circostanti la valle del Nacamuli e la Valpelline e senza intoppi. Qualcuno lassù deve aver finito le frecce da tirarci.
Arriviamo alla macchina sfiniti dopo 15 ore di cammino, più di 1400m di dislivello positivo e con un pugno di mosche in termini di vette.
È stata sicuramente una due giorni per certi versi sfortunata, ma abbiamo deciso di prendere il buono di questa lezione e ci portiamo a casa una gita in ambienti maestosi, selvaggi e poco frequentati che non hanno smesso un attimo di ricordarci quanto la montagna sappia essere splendida e pericolosa contemporaneamente.
Oggi non torniamo a casa con vette nello zaino, ma con un bagaglio di consapevolezza che ci permetterà di crescere e migliorare molto più che una montagna raggiunta senza intoppi.